Family life – Storia di Silvia una disabile omosessuale
Oltre lo stereotipo della persona omosessuale, volentieri ospitiamo la storia di Silvia che ha il pregio di riportarci uno spaccato di vita reale della vita gay, del coraggio autentico di saper tracciare la propria strada rivendicando il diritto ad una vita autonoma e a costruire un progetto di vita a fianco della persona che si ama.
..Sono nata trentadue anni fa. Il parto è stato piuttosto lungo e laborioso. Durante il mio primo anno di vita, mia madre già si era accorta che qualcosa non andava per il verso giusto. Non camminavo, non parlavo e la mia manina sinistra si muoveva in modo scoordinato ed era spesso rigida. Così ha deciso di portarmi da uno specialista che mi ha diagnosticato una emiparesi spastica sinistra. Siccome ero ancora molto piccola il medico non ha potuto – o voluto – esprimersi sull’entità dei danni, sicché mia madre ha continuato a macerarsi nella paura di avere una figlia ritardata oltre che spastica.
Fortunatamente, col passare del tempo, le paure rispetto al mio ritardo mentale si ridimensionarono fino a sparire completamente, dal momento che fin dall’asilo le maestre le dicevano che ero molto intelligente. Quanto all’handicap fisico, bé, quello era una realtà, presente ma non così grave come una mamma impaurita poteva pensare.
Camminavo, anche se con una leggera zoppia e la mia mano non era proprio disastrata. Non avevo una manualità fine, ma tutto sommato, la mia condizione era meglio di quella di molti altri. Da piccola, il mio handicap non mi ha creato molti problemi. Anzi. Arrivavo tardi alle lezioni, per via della riabilitazione ed ero la cocca delle maestre: questo mi rendeva orgogliosa. Avevo qualcosa che mi faceva essere speciale, e questo mi piaceva. I problemi iniziarono alle medie. Non so come, ne quando di preciso, ma ad un certo punto mi resi conto che avevo vergogna. Vergogna che gli altri si accorgessero di me, della mia goffaggine e della mia diversità.
Forse da questo derivava la mia timidezza, la ritrosia nei confronti degli altri. Avevo paura del loro giudizio e del loro scherno. Alle medie, tutto il mio disagio si concentrava durante le lezioni di educazione fisica e di musica. Spesso, in palestra, ero esonerata dagli esercizi che i miei compagni di classe sembravano poter fare con tanta agilità, ma era soprattutto durante le lezioni di musica, quando gli altri ragazzi suonavano il flauto, che emergeva tutto il mio malessere. Avevo paura che mi chiedessero perché non suonassi anch’io – in fondo cosa c’è di difficile nel tappare e stappare a ritmo i buchi di un pezzo di legno? Ma io non potevo. Inoltre c’era chi mi scherzava per la mia andatura claudicante: mi ricordo che spesso lo facevano all’uscita da scuola, e che ci soffrivo parecchio, arrivando a fare di tutto per evitare quegli spiacevoli incontri. Nel frattempo andava avanti la ginnastica di riabilitazione, e io mi dicevo: “Non sono come quelli!” – e quelli erano i bambini-ragazzi-adulti che si succedevano nella palestra del “Centro discinetici”. Nonostante tutto io camminavo con le mie gambe, non sbrodolavo, non facevo rumori strani con la bocca, e soprattutto non avevo quello sguardo strano e spento. Mi buttai, con risultati più che discreti, nello studio. Se non potevo essere uguale a loro (e loro erano i “normodotati”) per quanto riguardava il fisico e le sue prestazioni, ebbene, li avrei battuti sul terreno intellettuale. L’adolescenza fu oltremodo solitaria, divisa tra i libri su cui studiavo e quelli che leggevo per piacere. Il mio handicap era confinato in un angolino buio della mia mente e, non appena si affacciava, facevo di tutto per ricacciarlo indietro. Ero talmente brillante a scuola – prima le Magistrali e poi l’Università – quanto triste e solitaria fuori. Anche per colpa del mio handicap che mi impediva di essere spensierata e disinvolta.
Dico anche, perché c’era un altro motivo, che fino a quel momento, i miei 22 anni, la mia laurea, non era ancora emerso. Parlo della mia omosessualità, inconsciamente repressa e improvvisamente emersa durante una sorta di vacanza-premio per la mia laurea. Un innamoramento assolutamente platonico e scoperto solo a posteriori, quando, ormai a casa pensavo con nostalgia alla vacanza. Ma più che alla vacanza pensavo all’animatrice del villaggio. Questa scoperta avrebbe potuto far crollare tutto ciò che avevo faticosamente costruito, e che in realtà era molto poco e molto poco stabile.
Distrusse molto è vero, ma fu una cosa positiva. Improvvisamente mi ritrovai a provare dei forti sentimenti per una persona e questo cambiò tutto. Intuivo di non essere solo razionalità e iniziai a lasciarmi andare un po’, a fidarmi degli altri, scoprendo che a loro non importava nulla del mio handicap, né tanto meno della mia omosessualità, ma interessava soltanto se fossi simpatica ed empatica nei loro confronti. Il resto erano quisquilie. E quel che non avrei potuto neanche sognare da adolescente, divenne una realtà da adulta. Non mi irritavo se gli altri mi aiutavano, che ne so, a servirmi a tavola, parlavo tranquillamente di me, della mia omosessualità e del mio handicap. E loro mi stavano a sentire, tutt’altro che disgustati e ostili. Nel frattempo avevo fatto la patente. Avevo una macchina speciale, con dei comandi ad hoc per me.
All’inizio avevo timore che gli altri potessero vederla e chiedermi il perché dovessi guidare proprio quel tipo di macchina. Ma poi un giorno che ad una mia amica serviva un passaggio, mi sono trovata a pensare: “Al diavolo! Chi se ne frega” e l’ho fatta salire.
Quell’episodio, lo so che sembrerà stupido, è stata una piccola pietra miliare. Finalmente stavo iniziando a fare pace con me stessa. Ma l’aiuto più grande me lo ha dato la mia compagna. Quando ci siamo conosciute, ho voluto mettere in chiaro, come prima cosa, la presenza di questa “realtà ingombrante” – forse avevo paura che, una volta che se ne fosse accorta avrebbe preferito lasciarmi piuttosto che stare con una così. E lei mi ha veramente stupito. Mi ha detto che se n’era già accorta ma non le importava, lei mi amava com’ero. E se quel com’ero implicava anche un handicap fisico non c’era problema. L’handicap faceva sì parte di me, ma Silvia era anche dell’altro. Una volta mi disse che Dio mi aveva fatto troppo perfetta e allora, per potermi far stare alla pari con gli altri mi aveva dato questa imperfezione. Sicuramente l’aveva detto perché mi amava, ma mi ha fatto un gran bene sentirlo, oltretutto da lei. Ora quando penso al mio handicap lo penso non come il punto focale della mia persona, ma come un aspetto, per quanto scomodo, di me, accanto ad un milione di altri. Di quelle parole ho fatto tesoro.
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