I giovani scrittori, convenuti dalle Tre Venezie, cominciano a declamare ma non si sente nulla: non hanno un palco, non hanno un microfono, la folla rumoreggia, non s’ode una sillaba. Proteste, schiamazzi, sarcasmi.
Un gruppetto di suonatori ecuadoregni smette di suonare e presta un microfono. Ci siamo. Lo spettacolo ha inizio. E dunque non solo il Nord-Est delle aziende, ma anche quello degli intellettuali, senza extracomunitari si paralizza. Siamo a Treviso, in Piazza dei Signori: quindici scrittori veneti son qui per leggere passi di grandi testi, dal Vangelo alla Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo, contro il razzismo. Perché qui? Perché Treviso è sentita come la città-madre fra quante propongono l’esame di italiano a quelli che chiedono la cittadinanza, un reddito minimo garantito, l’uso di metodi da SS contro chi delinque, e così via. Treviso, Vicenza, Verona, Padova hanno anche altri esempi, che dicono tutto il contrario: percentuali altissime di immigrati che lavorano a condizioni sindacali, ma il problema è proprio questo: c’è bisogno di loro, li si fa lavorare e li si paga, ma poi, proprio a Treviso, gli si proibisce di passeggiare, uomini e donne, davanti al duomo con le vesti sgargianti del Maghreb. L’idea è che le vesti del Maghreb sono offensive per le piazze cattoliche, quindi per il Dio cattolico, quindi per i morti e l’anima nostri.
Ora, forse questi giovani scrittori veneti, che salgono uno dopo l’altro sui gradini all’angolo di Piazza dei Signori, usano i loro testi, romanzi, racconti, saggi contro il razzismo? Sarebbe bello, ma sarebbe poco. Non fanno questo. Contro il razzismo scagliano il Vangelo, la Carta dell’Onu, una poesia di Brecht, una di Noventa, due passi del Vangelo, un canto di Leopardi, insomma le parole più alte scritte dall’umanità attraverso i secoli e i continenti. Non è una parte della cultura d’Italia che combatte il razzismo, ma un nucleo centrale della letteratura pluricontinentale e plurisecolare.
La gente è una marea. Si ammassa dal fondo, davanti al caffè che si chiama naturalmente «Signore e signori». Tutti commentano, applaudono. Ipersensibili. Applaudono soprattutto Marco Paolini non perché è Paolini ma perché ha una stupenda pronuncia del dialetto e legge squarci di vita trevigiana, ubriaconi, poveracci, malati di tutte le malattie, al corpo e alla mente. Paolini chiede attenzione anche per costoro che nessuno chiama, ma Hitler chiamava, sottouomini: l’odio per i perdenti comincia da loro.
Fosse solo questo il risultato, vedere i grandi della letterattura accanto ai reietti della società, da una parte il sindaco di Treviso e il prosindaco e i sindaci di Cittadella e di Montegrotto, e dall’altra parte l’Onu, San Luca, Truman Capote, Walser, Parise, valeva già la pena. Perciò dico: è un convegno di scrittori più grande dei convegni in cui gli scrittori lanciano un movimento o un gruppo. Qui incontrano la gente sul terreno della gente. Tiziano Scarpa legge le Beatitudini. Gianfranco Bettin la poesia di Noventa sull’emigrato che vuol morire a casa. Roberto Ferrucci la Dichiarazione Universale dei Diritti, e gli applausi fan rimbombare la piazza quando arriva ai diritti di libertà religiosa (qui c’è il problema di una moschea, la gente vuole la moschea?).
Marco Franzoso legge Leopardi, l’umanità deve impegnarsi in una lotta comune contro la Natura. Intorno, sulle vie, una muraglia di vetrine con i saldi. Si svende tutto. Pare che da domani i negozi saran tutti vuoti. Solo qui, nel cuore della piazza, si sentono parole antiche sulla nascita e la morte, e le maledizioni (appendice alle Beatitudini) contro chi sperpera e non aiuta e abbandona. Questa massa umana forma una specie di agape cristiana. Questo deve fare la letteratura. Se non fa questo, non fa niente. |
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